Teofilo Patini
Il Patini prende la denominazione dal pittore Teofilo Patini (Castel di Sangro 1840 – Napoli 1906), autore di capolavori di importanza non solo artistica, ma anche politica e sociale, in quanto veri e propri mezzi di denuncia delle misere condizioni in cui si viveva a Sud dell’Italia post-unitaria.
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Castel di Sangro (AQ), 5 maggio 1840 - Napoli (NA), 16 novembre 1906
Terzo di dieci figli, Teofilo Patini nacque a Castel di Sangro (L’Aquila) il 5 maggio 1840. Suo padre Giuseppe, proveniente da una famiglia di agiati armentari, cancelliere di “giudicato regio” e successivamente notaio, lo avviò agli studi letterari nella scuola aperta a Sulmona dal raffinato latinista e cospiratore antiborbonico Leopoldo Corrucci e dallo studioso e patriota Panfilo Serafini.
L’influenza di questi suoi primi maestri si rivelò fondamentale nelle sue propensioni culturali e nelle sue inclinazioni patriottiche, umanitarie e sociali.
Iniziò gli studi di filosofia nell’Ateneo napoletano e li abbandonò poco dopo per dedicarsi interamente, dal 1856, agli studi di pittura nell’Accademia di Belle Arti durante i quali si avvalse della guida di Domenico Morelli e Filippo Palizzi che “fuori dell’Istituto” promuovevano una profonda trasformazione del gusto e delle ricerche pittoriche tradizionali.
La conoscenza, inoltre, con Salvatore Tommasi e soprattutto con Bertrando Spaventa, suoi conterranei valse ad arricchirne la formazione e gli stimoli, con aperture verso la storia intesa come verità assoluta e con un aspetto di inclinazione idealistica che sembrerà presto riflettersi nella sua opera per molti versi propensa a concedere al soggetto una funzione preminente.
Negli anni Sessanta, seguendo gli orientamenti allora predominanti, il Patini affrontò temi prevalentemente desunti dalla storia, prediligendo i personaggi di Masaniello e di Salvator Rosa al quale una tradizione, successivamente smentita dagli studi storiografici, attribuiva una fervida attività libertaria e sociale.
La Rivoluzione di Masaniello gli procurò fin dal Sessantatre i primi consensi rimarcati nel Sessantacinque dal Parmigianino, ispirato ad un episodio del Sacco di Roma (alternativa denominazione del medesimo dipinto) del 1527 narrato dal Vasari. Grazie a queste ed altre affermazioni, oltre che per i brillanti risultati in ambito più strettamente scolastico, l’Amministrazione Provinciale dell’Aquila lo sostenne per diverso tempo con provvidenze e pensioni annue.
Patini visse intensamente anche il periodo culminante dell’unificazione nazionale e della reazione violenta che l’accompagnò, militando fra i Cacciatori del Gran Sasso voluti da Garibaldi. La successiva repressione del brigantaggio lo vide impegnato nelle file della Guardia Nazionale Mobile con il grado di sergente, dopo che da volontario si arruolò nel contingente fornito dal suo paese.
Ottenne nel Sessantotto il Pensionato di Firenze, che gli consentì contatti con i Macchiaioli, e nel Settanta quello di Roma, durante il quale intensificò un’unione di lavoro e di studio con il più anziano Michele Cammarano, da lui già conosciuto e frequentato a Napoli.
Rientrato nel 1873 nel suo paese natale dopo aver preso atto a Napoli dei richiami artistici di Hans von Marées, principale esponente della pittura della “pura visibilità” teorizzata dall’Hildebrand e dal Fiedler, approfondì le sue ricerche in intensi paesaggi e in studi volti a fisionomizzare in chiave personale le tematiche ispirategli dalle condizioni di immiserimento della gente dei suoi luoghi approdando ad un lirismo memore degli insegnamenti palizziani e delle ricerche illuminanti condotte con l’amico Cammarano nella campagna romana.
Le prove più significative degli anni Settanta, dalla Prima lezione d’equitazione, dove si affaccia la triade familiare su cui si incentreranno le tele più note della maturità, alla Catena, quasi autobiograficamente volta ad evocare l’esperienza della caccia ai briganti, ai Tre Orfani, che crudamente scandiva la scoperta della misera condizione della sua gente, lo portarono nel 1880 alla creazione della più celebre delle sue opere, L’Erede, a cui nel bene e nel male rimase legato il suo nome, da quando, l’anno successivo venne esposto a Milano.
Patini andò quindi completando e approfondendo l’analisi della realtà della terra natale attraverso quella che lui stesso definì la sua “trilogia” comprendente, oltre all’Erede Vanga e Latte, esposta a Torino nel 1884 in coincidenza dei primi moti agrari del Veneto e acquistata dal Ministero dell’Agricoltura, e Bestie da Soma, presentata a Venezia nel 1887 ed acquisita dall’ Amministrazione provinciale dell’Aquila.
Chiamato nel 1882, grazie anche all’interessamento di Primo Levi, a dirigere la Scuola d’Arti e Mestieri fondata ad Aquila in precoce accordo con le recenti prospettive culturali europee, la sua esperienza si arricchì attraverso gli approfondimenti di studio consigliati dal nuovo ruolo ed attraverso il viaggio in Germania che gli venne sollecitato nel 1884 dal Ministero dell’Agricoltura perché ne ricavasse stimoli ed arricchimenti utili all’insegnamento.
La tematica sociale che oltre ai dipinti della trilogia si era arricchita di altre importanti prove, quali la grande tempera dell’Aquila, realizzata nel 1882, e della pensosa Pulsazioni e Palpiti, conclusa verso il 1890, dopo “un decennio di lavoro” secondo quanto egli stesso affermò, continuò ad attrarre il Maestro fino all’ultimo, come confermano non solo le riedizioni dei dipinti più celebri quanto anche nuove ideazioni di opere, fra cui Le due Croci, del periodo più tardo.
Pur senza contraddire la precedente, l’ultima fase della produzione di Patini parve più disposta ad accogliere le sollecitazioni pittoriche nuove, giacché in essa si rintracciano indicativi suggerimenti riconducibili alla cultura europea contemporanea, dal nascente gusto liberty al preraffaelitismo.
I temi sacri, frequentemente commissionatigli nell’ultimo periodo, nonostante un suo profondo interesse per il messaggio evangelico, non gli furono suggeriti da una vera e propria fede religiosa estranea invero alla sua personalità ed ai suoi convincimenti di massone, affiliato alla Loggia aquilana della quale fu Venerabile.
Alla stessa maniera egli, pur avvertendo intensamente e non solo come pittore le problematiche sociali legate al mondo operaio ed a quello rurale ricusò di militare nel Partito Socialista.
L’importante incarico di affrescare l’Aula Magna dell’Università di Napoli, conferitogli dal Ministero della Pubblica Istruzione nel 1905 a seguito di un concorso a carattere nazionale, giunse a coronare una vita di intenso lavoro, non priva di incisivi riconoscimenti e dell’ammirata considerazione della sua gente che lo volle Amministratore del Comune natìo e Consigliere Provinciale, ma anche amareggiato da invidie e meschinità immeritate oltre che da lutti familiari.
Tornato a Napoli , la città che lo aveva visto nascere e formarsi come pittore per tradurre in affreschi i bozzetti prescelti, fu stroncato da un ultimo attacco di angina pectoris o ictus cerebrale come oggi sembra più probabile, nella notte del 16 Novembre 1906.
La Trilogia
Nel 1873, l’anno stesso in cui il “Ciabattino”, la sua più rilevante prova verista della prima fase, fu esposto alla Promotrice di Napoli, rientrò nel paese natale. Oltre a qualche riflesso della consuetudine con Salvatore Tommasi e con Bertrando Spaventa, sull’evolversi della sua creatività ebbe una incidenza determinante l’osservazione condotta nello specifico contesto ambientale dell’amata Castel di Sangro, che fedelmente rifletteva i segni del gravissimo degrado economico e sociale diffuso nel centro – sud della Penisola e qui soprattutto aggravato dalle improvvide leggi postunitarie. Gliene derivarono le nuove consapevolezze da cui venne indotto a trasferire alla storia contemporanea quell’attenzione che aveva rivolta alle vicende del passato, procedendo ad una cronaca intesa a registrare gli elementi di una specifica quanto emblematica quotidianità, in una operazione che automaticamente si innestava nell’alveo della nascente Questione meridionale e nel contesto del dibattito sul “risorgimento tradito” innescato dalla delusione profonda e largamente avvertita specialmente fra gli intellettuali.
Ne derivò l’analisi acuta e dagli accenti personalissimi di cui dà conto l’insieme della sua articolata e composita produzione, le cui scansioni più impegnate ed eloquenti, ma soprattutto più sincere e convincenti anche per quanto attiene alla qualità dei caratteri pittorici, vennero additate dal Patini stesso nelle tre tele di cui si compone quella “trilogia” che “accompagna l’eroe della gleba dal nascere al morire”, come evidenziò in un’ampia dedica al deputato socialista Enrico Ferri.
Essa è formata dall’”Erede”, il dipinto che, licenziato nel 1880, premiato nella Esposizione Nazionale di Milano del 1881 e poco dopo acquistato per la Galleria Nazionale d’arte moderna di Roma, “segnò nell’arte italiana dell’Ottocento uno dei successi diù clamorosi”; da “Vanga e latte”, esposto nell’ 84 a Torino in coincidenza dei primi moti agrari del Veneto e qui acquistata dal Ministero dell’Agricoltura, e da “Bestie da soma”, presentata all’Esposizione Nazionale di Venezia nel 1886 ed acquistato l’anno appresso dall’Amministrazione Provinciale dell’Aquila
Opere principali
Dagli anni settanta prese corpo la significatività delle sue opere delle quali le più importanti sono:
– La prima lezione di equitazione (2 versioni)
– La catena
– Le tre orfanelle
– L’erede (2 versioni)
– Vanga e latte
– Bestie da soma
– L’Aquila (affresco)
– Pulsazioni e palpiti
– Pancia e cuore
– L’Angelo Custode
– I Bravi
– Il Volto Santo
– I Notabili del mio paese
– Il pifferaio
e molte altre (patrimonio oggi di collezioni private).
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